giovedì 27 settembre 2007

L'ARTE DELLA DIGESTIONE

Parecchie sono le informazioni e le note che sono presenti in rete relative alla gastronomia e dintorni. Oggi ne ho individuata una, che mi sembra interessante e che condivido.
E' apparsa su "La Stampa" online, a firma di Fernando Savater. Eccola:

All’inizio dell’anno, durante una riunione gastronomica denominata Madrid Fusión, il famoso cuoco Santi Santamaria (del ristorante barcellonese Can Fabes) ha fatto alcune dichiarazioni che hanno suscitato, insieme, polemica ed entusiasmo. Attorniato da esperti di gastronomia che parlano di minestre e di dessert con termini da tecnologia avanzata, ha sostenuto senza fare una piega: «La verità della cucina è cucinare, cucinare e cucinare. Non credo nella cucina scientifica né nell’intellettualizzazione dell’atto culinario. Non m’interessa sapere che cosa accade a un uovo quando lo friggo, voglio solo che sia buono». E , con una disinvoltura apparentemente suicida, ha concluso: «Siamo una compagnia di commedianti che lavora per soldi e per dare da mangiare ai ricchi e agli snob». I commedianti, i ricchi, gli snob presenti all’incontro gli hanno tributato una standing ovation: dentro ognuno di noi si cela un essere obliquo che sogna di vedersi pubblicamente smascherato, anche solo per un minuto.
È da parecchio tempo che sono affascinato dalla penosa serietà con cui intellettuali di tutto rispetto esprimono la loro devota attenzione alle più sofisticate e sofistiche manifestazioni d’alta cucina. Si tratta, generalmente, di personaggi che si dimostrano scettici nei confronti delle vicende politiche e religiose. Qualcuno, addirittura, prova gusto nell’esibire un’arietta cinica davanti a certi aspetti poco puliti della vita d’ogni giorno.
In materia di spume di carne, frittate destrutturate e aromi elaborati al computer dimostrano, però, una credulità che lascia di stucco. Entrano in trance non appena varcano la soglia d’uno di qui palazzi della moda soffritta il cui motto è stato inventato, anni fa, dal vecchio Paul Bocuse: «Niente nel piatto, tutto nel conto».
Rispettiamo questa variante della fede, fa parte della libertà religiosa di cui godiamo. Ma, visto che ogni snobismo e pacchianeria tende indefettibilmente a coniare una sua propria estetica, ecco la cucina tramutata in arte.
Certo, in senso lato ci sono sicuramente «artisti» dei fornelli, gente che li usa con destrezza e abilità particolari, che si documenta con cura su materie prime e condimenti o che ha una speciale inventiva nell’armonizzare i sapori.
Non è cosa da poco e meritano tutto il nostro apprezzamento.
Ma la loro bravura appartiene all’onesto mondo dell’artigianato, non a quello della creazione artistica, il cui obiettivo non è soddisfare i sensi, ma risvegliare sentimenti e spingere alla scoperta di inediti significati.
L’effetto più alto d’un piatto è saziare gradevolmente la fame; e favorire un diverso intreccio di gusti nel palato delle persone che hanno un appetito viziato (i ricchi, gli snob).
La vera arte, in realtà, incomincia dopo. Se il tubo digerente fosse una galleria adeguata per un nuovo tipo di mostre bisognerebbe riconoscere come opera d’arte non solo quello che vi entra, ma anche quello che ne esce (già c’è stato un anticipatore che ha venduto «merda d’artista» in lattina).
L’incoronazione di Ferrán Adriá durante la Fiera dell’arte di Kassel non aggiunge una virgola alla sua «genialità», ma rivela quanto siano insulsi i chierici dell’attuale decadenza artistica.
Gustav Meyrink, a proposito dell’«arte regionale», ha affermato: «In essa l’arte non c’è e il regionale è contraffazione». Dell’arte culinaria temo si possa dire più o meno lo stesso.
Forse per questo motivo il saggio gastronomo Jean-François Revel pensava che il popolare e ultraclassico «Chez Allard» fosse il miglior ristorante di Parigi e quando veniva in Spagna, mentre attorno a lui i dilettanti appassionatamente degustavano decotti e strani croccanti, lui si barricava dietro un piatto di prosciutto «pata negra» e una bottiglia di vino bianco di Sanlúcar.

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