venerdì 27 luglio 2007

VINI DA CONVERSAZIONE o DA MEDITAZIONE?

Se il vino è cultura, come molti ritengono, perché è in una certa misura la sintesi di diversi aspetti della nostra civiltà, quale definizione si può usare per i vini da conversazione, come preferisco definirli al posto del logoro "da meditazione"?
Potremmo forse azzardare l’ipotesi che siano la quintessenza del vino e della storia sottesa?
Forse, più semplicemente, rappresentano degli attimi di puro piacere.
Non tutti concordano nel considerare il momento della degustazione del vino come un qualcosa di unico, irripetibile.
Ogni volta che ci si avvicina al bicchiere, lo si porta al naso e poi se ne assaggia il contenuto celebriamo un rito edonistico, pieno di significati, coinvolgente.
Se stiamo mangiando, assisteremo al mescolarsi di molteplici sensazioni che, se talvolta contrastanti, aggiungeranno piacere; se beviamo solamente, apprezzeremo gli aspetti propri del vino, ne coglieremo i pregi e i difetti.
In entrambi i casi acquisiremo esperienze interessanti e i sensi saranno appagati.
I vini da conversazione esaltano questi aspetti, perché sono indicati per essere bevuti senza alcun accompagnamento di cibi e da soli; al massimo sono tollerati degli amici che di buon grado accettino il dovuto raccoglimento.
Sono vini così ricchi di sentori che saturano l’universo gustativo, evocano immagini e sensazioni squisitamente personali, talvolta ricordi antichi.
Il silenzio è d’obbligo, il raccoglimento viene spontaneo, perché si è in presenza di qualcosa talmente unico che ogni momento di distrazione suonerebbe come un sacrilegio.
Ma questo genere di vini ha una doppia faccia: può sopportare e supportare anche qualche accostamento col cibo, quasi volesse dimostrare ulteriormente la propria superiorità; è come se uno di questi vini dicesse “Sono talmente buono e perfetto che mi abbasso a essere bevuto mentre mangi qualcosa; ti dimostro come le mie qualità possano essere ancora di più esaltate; povero cibo, senza di me saresti poca cosa!”
Ho forse antropomorfizzato i vini da meditazione, facendomi trascinare dall’entusiasmo? Non credo, ma se così fosse il mio è un peccato veniale, dettato da troppo amore.
Recentemente ho avuto la fortuna di assaggiare in contemporanea alcuni esempi, che qui riporto con alcune note esplicative, convinto di poter stimolare qualcuno a seguire il mio esempio.
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MALVASIA DELLE LIPARI DOC 1997 CARAVAGLIO
Lontane sono le origini di quest’uva; molte monete del IV secolo a.C. trovate a Lipari recano impressa l’immagine di un tralcio di vite, di un grappolo d’uva o del dio Efesto, Vulcano, nell’atto di innalzare il kantaros sacro a Dioniso. La cultura della vite e il vitigno Malvasia furono importati dai Greci all’epoca della colonizzazione della Sicilia.
Il nome Malvasia deriva dalle parole greche moni e mvasis, che significano “unica entrata”, in riferimento al guarnitissimo ponte che difendeva e univa alla terraferma l’isolotto fortificato di Monemvasia nel sud del Peloponneso, zona in cui si coltivava questo tipo di vite.
A Lipari la Malvasia ha acquistato sentori unici, che si trasmettono a un vino che rischiava di scomparire se uno venuto da fuori non avesse ripreso a coltivarla e vinificarla come si deve, negli anni Sessanta, Carlo Hauner. Egli introdusse inoltre la vendemmia ritardata, a metà settembre circa, per permettere un leggero appassimento dei grappoli sulla pianta, evitando l’uso dei graticci per farli riposare dopo la raccolta; la fermentazione è mantenuta attiva per circa un mese a temperatura controllata. Questa metodologia di lavorazione, oltre a quella di far produrre non più di 4-6 grappoli a ogni ceppo, è stata adottata dall’altro grande produttore, Caravaglio.
Va ascritto comunque a Carlo Hauner il merito di aver fatto conoscere questo vino al di fuori del ristretto mondo siciliano, di avergli fatto conquistare ambiti riconoscimenti in campo internazionale.

Vino dal colore ambrato se affinato a lungo, oro se giovane; profumi mediterranei, di mare, ginestra, ligustro, albicocca, pesca, uva passa, miele. Si accompagna a paté di fegato, oltre che a gelati, non di frutta, e pasticceria secca.
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VERDUZZO FRIULANO COLLI ORIENTALI DEL FRIULI PRAZENAR DOC 1997 RODARO
Il Verduzzo è quasi sicuramente un vitigno indigeno, sviluppatosi in Friuli nei secoli con incroci tra le diverse varietà e selezioni clonali; oggi infatti abbiamo diversi tipi di Verduzzo, i più noti e importanti dei quali sono quello Verde e Giallo. Da quest’ultimo si ricava il vino da dessert che, per una superficiale legislazione, può essere chiamato semplicemente Ramandolo se proviene da uve coltivate nei comuni di Ramandolo, Nimis, Faedis, Torlano e Sedilis.
Le uve sono generalmente fatte appassire sulla pianta, piuttosto che su graticci, a seconda dell’andamento stagionale; successivamente, dopo la spremitura, si applica una lenta fermentazione, a temperatura controllata, per 50-60 giorni, al fine di garantire le caratteristiche aromatiche del prodotto. Successivamente, si passa in barrique il vino, per 4-8 mesi, secondo i gusti del produttore.

È vino da conversazione che può accompagnarsi a formaggi erborinati e molto piccanti, oltre che a pasticceria secca; colore ambrato, con sentori di miele di acacia e mandorla.

MOSCATO DI SCANZO PASSITO 1994 BIAVA
È il più raro e il meno conosciuto dei moscati italiani, prodotto in un’area molto limitata, sei ettari circa, nel territorio di Scanzorosciate comprendente le frazioni di Tribulina e Negrone, nella zona collinare tra Seriate e la Val Seriana, in provincia di Bergamo; le vigne crescono su terreni calcarei chiamati localmente "sas de Luna" per il colore bianco calcinato; é questo terreno che conferisce in maniera determinante le caratteristiche uniche a questo vino.
Le prime testimonianze storiche risalgono al 1347, quando si menziona un certo “moscatello rosso”; nel Settecento il Moscato di Scanzo era già quotato sul mercato di Londra, particolarmente sensibile ai vini dolci di buon grado alcolico come il Porto, Madera, Jerez. La notorietà internazionale fu raggiunta quando l’architetto bergamasco Antonio Quarenghi, chiamato da Caterina di Russia a progettare i palazzi imperiali di San Pietroburgo, portò in omaggio alla zarina alcune botti di questo vino. Il salto qualitativo si ebbe agli inizi degli anni Novanta con l’introduzione di tecniche di vinificazione moderne; oggi i grappoli sono lasciati appassire per 21 giorni su graticci, indi spremuti e la fermentazione avviene lentamente, per mesi. Il Moscato è lasciato riposare per due anni in vasche di acciaio inox prima di essere imbottigliato; il disciplinare vieta espressamente l'uso del legno, di qualsiasi capacità.
I vigneti, posti sul Monte Bastia, sono esposti a sudovest a circa 300 metri di altitudine, sono vendemmiati tra la fine di settembre e la prima settimana di ottobre, compiendo una selezione manuale delle uve.

Il Moscato di Scanzo ha colore rosso rubino con riflessi mogano, profumo ampio e ricco di sentori di spezie, frutti esotici, fragola, frutta cotta, salvia, miele, cannella.

ACCOSTARE


Come accostare un vino ad una pietanza mi ha interessato da sempre, perché sono convinto che si debba perseguire il massimo delle soddisfazioni quando ci si trova a tavola.
Il piatto più sopraffino diventa mediocre se non pessimo se accompagnato da un vino non adatto, così come la bottiglia eccelsa è penalizzata da un cibo che è in totale disaccordo.
Per questi motivi, sembrerebbero dettati dal buon senso, ho deciso di raccogliere in un libro le esperienze "sul campo" di decenni di prove, ora entusiasmanti ora deludenti, quando non tragiche.
E' nato così una sorta di manuale, che ha lo scopo di aiutare chi è interessato a queste problematiche.
E' volutamente semplice, suddiviso in due parti: la prima riporta in ordine alfabetico 725 vini italiani, per ognuno dei quali è proposta una scheda sintetica che fornisce indicazioni sul luogo di produzione, le uve, il colore, la classificazione; le note organolettiche, dando ulteriori informazioni, introducono ai suggerimenti dei piatti consigliati, preceduti dall'accostamento ideale, contrassegnato da un cuore.

La seconda parte propone l'elenco delle preparazioni, in ordine alfabetico, con i vini consigliati.

In tal modo, la consultazione è facilitata, oltre ad essere, mi sembra, anche una piacevole lettura, perché, individuato un piatto nella prima parte, si può controllare quali altre possibilità siano oferte.

Questo libro non vuole esprimere giudizi inappellabili, poiché i gusti sono squisitamente personali e come tali devono essere rispettati. Fornisce utili indicazioni per evitare errori grossolani: la scelta degli accostamenti è dettata dall'analisi dei componenti della preparazione e delle caratteristiche organolettiche del vino.
Non sono state inoltre trascurate quelle unioni dettate dalla tradizione locale, forse non ideali, ma di sicura gradevolezza, purché rispettino i principi di cui sopra.
Nella definizione dei vini, ho preferito la parola "da conversazione" invece di quella usuale "da meditazione", convinto che il buon vino debba essere bevuto in compagnia, per poter scambiare le sensazioni, favorire la comunicazione, provare piacere nello stare insieme.

Al libro è accluso un cd-rom in omaggio, che contiene un database consultabile in diversi modi e che permette di aggiungere proprie note. Comprende anche un e-book, strutturato con rimandi ed approfondimenti, relativo alla vite ed al vino, alla loro storia e ai metodi di produzione, completato da un corposo glossario dei termini più usati.
Il libro può essere ordinato per e-mail al costo di euro 20 più spese postali di spedizione.

giovedì 26 luglio 2007

UN PROFUMO INASPETTATO

Ho riassaggiato un vino che tempo fa mi aveva colpito, non solo per la qualità, ma soprattutto per un profumo che difficilmente si può trovare: il glicine.

Si tratta del Bin 128 Coonawarra Shiraz di Penfolds, Australia, cantina nota per l'alta qualità dei vini prodotti.
E' un vino straordinariamente equilibrato e potente allo stesso tempo, ricco e vellutato, di un colore rosso rubino intenso, impenetrabile.
Il profumo del glicine si sposa con sensazioni speziate e balsamiche, con ricordi di chiodo di garofano e spezie orientali.
I tannini eleganti nettano perfettamente la bocca e la corretta acidità conferisce note di freschezza singolari. Le note fruttate e minerali lo rendono sorprendente; il passaggio in barriques francesi regala l'equilibrata sensazione di vaniglia e di tostato, che vanno ad arricchire il quadro complessivo.
La bottiglia degustata era del 2000 e presentava ancora note di gioventù: si tratta di un vino longevo, che nel tempo migliora sempre più e si affina lentamente.

Lo shiraz, chiamato anche shirah, è un vitigno di origine mediorientale - la leggenda vuole che sia originario dell'omonima città persiana - che non presenta particolari problemi di adattamento ai diversi climi e terreni. Nei climi freddi, come quelli francesi e del centro Italia, conferisce ai vini note fruttate eleganti con accenni vegetali; nelle aree più calde, ed in presenza di terreni ricchi di sali minerali ed argillosi, genera sentori maggiormente fruttati, talvolta di confettura.

In Italia è coltivato con successo a cavallo tra il sud della Toscana ed il nord del Lazio, oltre ad entrare in numerosi uvaggi.

A mio parere, una delle migliori espressioni è rappresentata dallo shiraz prodotto in provincia di Latina, dall'Azienda Casale del Giglio, che coniuga un sapiente uso della piccola botte ad una vinificazione da manuale.


mercoledì 25 luglio 2007

LA RICERCA CONTINUA ...


Il cuoco - tratto da Theatrum Sanitatis, codice del 1300, Biblioteca Casanatense, Roma

La ricerca di una cucina rappresentativa delle tendenze attuali dell'arte culinaria a Milano continua con un'eperienza sicuramente entusiasmante.

Ieri, martedì 24 luglio, ho cenato da Nicola Cavallaro, che ha aperto il suo locale dall'anno scorso in Via Ludovico il Moro 11,tel 02 89126060, di fronte a quel piccolo gioiello che è la chiesa di San Cristoforo, sul Naviglio.

Al piano terra, una saletta con un tavolone per degustazioni è tappezzata con bottiglie di qualità; salendo lungo una scaletta in pietra che si attorciglia su sé stessa, si arriva al primo piano, occupato dalla sala per circa cinquanta posti, articolata in due aree distinte, dominata da un fresco verdolino alle pareti.
L'ambiente coniuga semplicità e raffinatezza, i tavoli, distanti uno dall'altro, garantiscono riservatezza ed intimità, l'apparecchiatura è di alto livello, curata nei particolari, il servizio è puntuale e discreto.

Il primo impatto è con il maitre Ederin Enesi, di origine albanesi-turche, che guida con sicurezza nella scelta del menu, suggerendo con competenza e discrezione i vini.
Questi ultimi sono frutto della scelta ragionata e sentimentale di Nicola Cavallaro, che è riuscito a scovare etichette di non facile reperimento, sempre attento al famigerato rapporto qualità-prezzo.
A questo proposito, è giusto sottolineare come il ricarico sia più che onesto e che la scelta dei vini a bicchiere sia ampia ed esaustiva.
Mi ha colpito uno champagne di un piccolo produttore, importato direttamente da Nicola: Charles Clément Brut Tradition, a maggioranza pinot nero, ricco, corposo, di carattere.

La cena si è svolta all'insegna della fantasia legata alla profonda conoscenza delle materie prime e delle tecniche di cottura.
I piatti di Nicola sono accattivanti, talvolta sorprendenti, presentati con eleganza, senza voler sorprendere ad ogni costo.
I sapori si fondono e si esaltano, i profumi dei componenti suscitano emozioni e ricordi antichi, soprattutto quando si assaggiano le interpretazioni di piatti tradizionali.

Un piatto, su tutti, s'è impresso nella memoria: "paccheri ripieni di ricotta alle erbe su vellutata di piselli freschi con gamberoni rossi di Sicilia" ; è stata l'apoteosi dell'armonia.

Grazie, Nicola!